19/08/2021
La geografia delle Giornate tra politica e ricerca del sé
Le Giornate degli Autori presentano una mappa del cinema disegnata da film provenienti da molti Paesi del mondo, tra storie di vita personali e una geopolitica raccontata tra finzione e ricostruzione del reale.
L'identità dei singoli personaggi dei film di questa diciottesima edizione è spesso il riflesso delle questioni storico-sociali che nel 2021 fanno da scenografia a molte storie. Così il cinema sociale, quello politico e il cinema più intimista si fondono in un unico universo che va oltre i generi e i luoghi. I grandi temi epocali da prime pagine dei quotidiani non sono soggetto di queste storie ma ne sono spesso la diretta conseguenza, segno che la politica e la storia attuale fanno da linfa (e da veleno) alla drammaturgia contemporanea. Non c'è il racconto di guerra ma c'è lo sfondo di tutte le guerre, vediamo al cinema una società in trasformazione che cerca di rispondere a quella necessità umana di sapere da che parte stare. Ma per fortuna il cinema mette in discussione lo status quo, l'identità viene frammentata per essere analizzata e ricostruita in questo nuovo assetto sociale.
«Le donne e gli uomini che vengono raccontati nei film delle Giornate di quest'anno - racconta Gaia Furrer -, sembrano tutti vivere un dubbio terribile scaturito dalla domanda più politica di tutte: dov'è la mia casa? Una ragazzina marocchina nel napoletano, un poliziotto brasiliano violento e irrequieto, un medico siriano confuso e una giovane donna musulmana a Parigi cercano tutti il loro posto nel mondo, desiderano qualcosa che spesso non conoscono, aspettano un ritorno improbabile. La politica irrompe in questo cinema in campo lungo, mentre in primo piano ci sono le persone coi loro dubbi e le loro frustrazioni a disegnare una geografia i cui confini stanno al di là dei desideri e delle scelte dei singoli».
«Dal cinema di Elio Petri a quello di Ken Loach, passando per Marco Bellocchio, le regie di Clint Eastwood e le più recenti interpretazioni del reale di Chloé Zhao, il cinema sociale e politico si è evoluto al punto da non raccontare più le grandi crisi politiche ma storie di persone con bagagli pieni di questioni universali - dichiara Giorgio Gosetti -. Sono le ore in cui osserviamo la Storia succedere in Afghanistan e durante questa cronaca il cinema indaga tutto ciò che fa da contorno all'avvenimento storico: dall'immigrazione all'integrazione, dalla tradizione all'evoluzione personale e sociale».
Californie, il film italiano in concorso diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, ambientato in un hinterland napoletano distante dalle questioni della camorra, della droga e da gangster partenopei, è il racconto del costante tentativo di integrazione che sembra non avvenire mai; quando le vicende della ragazzina protagonista iniziano quasi ad assomigliare a una quotidianità regolare, crollano i presupposti attorno a cui il suo nuovo mondo si stava costruendo (in programma il 3 settembre, alle 17.15).
Anche Tu me ressembles (coproduzione egiziana, francese e statunitense - in concorso) si nutre di questa stessa ricerca di normalità insieme al desiderio di appartenenza per soddisfare il quale la protagonista si avvicina a una cultura religiosa senza viverne lo spirito, ritrovandosi a essere inconsapevole pedina ai margini della Storia. Il film «è un caleidoscopio di identità frantumate e sogni infranti», nella parole della regista egizio-americana Dina Amer, al suo primo lungometraggio di finzione. Sarà presentato al pubblico della Mostra il prossimo 8 settembre (alle 16.15).
Dal Brasile arriva un altro film in concorso che - sebbene si tratti di un melodramma LGTBQ+ - ha in sé il machismo, la tossicità, l'omofobia e le verità sommerse del Paese di Bolsonaro. Deserto Particular, diretto da Aly Muritiba, è un film sulla ricerca dell'identità la cui scrittura nasce da un atteggiamento e da una domanda politica sulle identità sessuali ma soprattutto sulla libertà personale di ciascuno. Come accade con Imaculat, il film rumeno diretto da Monica Stan e George Chiper-Lillemark. È principalmente una storia sulla ricerca della propria dimensione, che si nutre delle dinamiche sociali di molti luoghi del mondo ricreate in un contesto chiuso tra quattro pareti. Siamo in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti dove la protagonista - alter ego di Monica Stan che ha scritto il film basandosi sulla propria storia - si trova chiusa in una morsa di uomini da cui è costretta a dipendere: dal suo primo amore (in assenza) che l'ha fatta diventare tossica, agli uomini che cercano di abusare di lei, quelli che la sfidano fino a quelli che decidono di proteggerla.
«L'occupazione israeliana dei territori del Golan siriano nel 1967 è un evento caduto nel dimenticatoio», dice Ameer Fakher Eldin, regista di Al garib, storia intima su un medico con problemi di alcolismo: uno zoom sulla disperazione personale dove il rumore delle bombe si sente in lontananza mentre ci si immerge nella confusione di chi vive in un territorio occupato tra i suoi dilemmi personali e l'identità sbiadita un non luogo.
La documentarista israeliana Michale Boganim, allieva di Jean Rouch alla Sorbona di Parigi che aveva esordito nel lungometraggio proprio a Venezia con La terre outragée (2011), porta alle Giornate, Mizrahim, les oubliés de la terre promise, un racconto alle origini dello stato di Israele - lo stesso narrato da suo padre, membro delle Black Panthers locali - dove gli ebrei provenienti dai paesi arabi vengono da sempre discriminati in una sorta di confine immaginario che li esclude da quella grande promessa della politica internazionale che nel 1948 aveva finalmente il nome di Israele. Il film, tra filmati di repertorio e nuove immagini, «è un road movie che esplora la periferia sbiadita di una nazione" come lo ha definito la regista stessa».
E poi c'è il cinema che incontra la storiografia, le conseguenze della politica di quasi ottant'anni fa immortalate prima dei fatti su cui oggi un "film d'archivio" ci fa riflettere. Si tratta di Three minutes - A lengthening (tra gli Eventi Speciali), tre minuti di immagini in movimento girati nel 1938 in una cittadina ebrea polacca interamente sterminata dai nazisti pochi anni dopo, uniche immagini rimaste di questo luogo che oggi ci permettono di rileggere la storia. Il film - di cui Steve McQueen è produttore esecutivo (tra gli altri) - è diretto da Bianca Stigter, storica e documentarista che, in controtendenza rispetto alla velocità con cui si guardano le immagini nel mondo d'oggi, ci fa rivedere quegli unici tre minuti di girato in modo circolare per comprendere i dettagli che la fruizione a cui siamo abituati non ci permette di apprezzare.
Il ritorno dietro la macchina da presa di Sabina Guzzanti con Spin Time. Che fatica la democrazia! o «i poveri come non li avete mai visti», come afferma Guzzanti, è il racconto di un palazzo occupato di 17mila metri quadri, il centro sociale più multietnico di Roma dove è in atto un esperimento politico e sociale. Il film sarà presentato nell'ambito delle Notti Veneziane, in collaborazione con Isola Edipo.
Il Palazzo di Federica Di Giacomo - tra gli Eventi Speciali delle Giornate - è invece la rappresentazione dello sgretolarsi del palazzo dei sogni, delle aspirazioni e degli ideali politici della generazione dei cinquantenni di oggi. Anche nella genesi di Hugo in Argentina dello svizzero Stefano Knuchel (presentato alle Notti Veneziane, in collaborazione con Isola Edipo) c'è il sapore della geopolitica della prima metà del secolo scorso che aveva portato la sua famiglia a vivere nell'Etiopia conquistata dall'Italia fascista prima dell'arrivo in Argentina, dove lavorò per diversi anni e dove si emozionava incontrando i concittadini italiani muniti della tessera partigiana, come si ascolta nel documentario dalla viva voce di chi lo ha conosciuto.
Dulcis in fundo, il film di apertura delle Giornate (il primo settembre alle 17.00 in Sala Perla): Shen Kong (in concorso) è il film di questo tempo, rappresentazione pura di quello che siamo oggi, di come ci sentiamo e cosa aspiriamo ad essere. Da Macao, arriva l'esordio di Chen Guan, un film che racconta la libertà, il desiderio, la voglia di non sottomettersi alla solitudine e alla desolazione del tempo della pandemia ma che vuole credere nelle ideologie, nella salvezza, che vuole cercare la normalità anche dove sembra non poterci essere.