di Fabio Patrassi
Si è tenuto nel pomeriggio di venerdì 11 settembre preso la Villa degli Autori l'incontro
Le Buone Pratiche: Cinema e Teatro #2 Dissolvenze incrociate. Un'occasione per dibattere di un tema sentito e sempre attuale quale è quello delle reciproche contaminazioni tra cinema e teatro, alla presenza dei curatori
Marina Fabbri e
Oliviero Ponte di Pino, che hanno ceduto la parola, tra gli altri, ai produttori
Lionello Cerri e
Gianluca Arcopinto, ai registi
Eleonora Danco,
Pippo Delbono e
Luigi Lo Cascio.
È Cerri a fornire una prima impostazione della questione facendo riferimento ai molteplici terreni d'incontro tra le due arti, a cominciare dal pubblico: «Non si può più parlare di sale, destinate unicamente al cinema o al teatro. Occorre spostare l'attenzione sul contenitore del pubblico, pensarlo come un luogo di socialità; eliminare le categorizzazioni, per far crescere gli spettatori».
Sposta invece l'attenzione sul metodo, Arcopinto che rivela quanto la sua ricerca di un cinema indipendente e mai omologato sia debitrice nei confronti del teatro, e specialmente della sua idea di spirito di gruppo: «Nel cinema, troppo carico di pulsioni negative, manca quel sentirsi compagni sopra a un palcoscenico teatrale». Lo stesso produttore ha introdotto l'attrice regista Eleonora Danco, donna di teatro che nel suo primo film N-capace ha saputo dare rilievo a tematiche prettamente drammaturghe. La regista attrice ha aggiunto nel dibattito un tema fondamentale, quello della scrittura come elemento principe del dialogo tra cinema e teatro: «Inizialmente non sapevo cosa fosse il cinema. Successivamente tramite la scrittura - elemento fondamentale di integrità - sono riuscita ad arrivare al pubblico».
Con Lo Cascio si è tornati a una delle questioni centrali. Dopo essere stato interrotto da un simpatico siparietto, durante il quale i musicisti del film di Eugenio Barba si sono esibiti marciando in mezzo agli spettatori, l'attore e regista ha immaginato, in un'efficace prosopopea, il Cinema ammalato e morente, supino su di un letto d'ospedale, curato dal dottor Teatro.
Lo Cascio e Barba hanno citato entrambi Ejzenstejn: il regista sovietico è stato il primo a individuare le possibili contaminazioni tra cinema e teatro, e a dargli forma attraverso la cura dell'espressività del corpo e l'importanza del ritmo. «Le cose migliori le impariamo dai morti - ha continuato Lo Cascio - quindi, se a detta di molti il teatro è morto, meglio così».
Per il regista de La città ideale, esiste innanzitutto una differenza sostanziale tra i suoi colleghi. «Mentre i registi di teatro vanno al cinema, i cineasti guardano quasi con diffidenza il palcoscenico teatrale». Altra differenza sostanziale per Lo Cascio è che se il cinema è alla continua ricerca dell'attualità, l'errore più grande del teatro è il tentativo di attualizzare i classici. Il cinema deve prodursi nel tentativo opposto: rendere classica l'attualità. Il fatto che il cinema sia proiezione e non presenza porta a un eccesso di identificazione. «È male se durante un film non ci si identifica con il protagonista. Impossibile, viceversa, identificarsi con il Riccardo III di un palcoscenico».
E ancora la scrittura torna come fondamentale elemento di dialogo secondo Barba e Lo Cascio. Tramite la scrittura il vero artista, teatrale o cinematografico che sia, riesce a stare dentro al mondo. «Non basta girare la manovella» rivela Angelo Curti citando i quaderni pirandelliani di Serafino Gubbio. Il produttore ha definito "anfibi" quei colleghi che, come Lo Cascio, riescono a muoversi tra i due diversi panorami adeguandosi sapientemente alle due specifiche nature.
È spettato a Delbono l'arduo compito di tirare le somme. Tra la calma teatrale che concede grande spazio alle prove, e l'ansia cinematografica del girare più scene possibili, il grande autore teatrale ha affermato di essere riuscito a liberarsi dall'avidità di riprendere tutto: «La vita è molto più grande dell'arte. Non voglio essere dipendente dalla videocamera». Citando il "trovare senza cercare" di Picasso, Delbono ha auspicato il reinventarsi di un modo di essere. Riuscire a fare del cinema antropologico, che guardando al grande teatro possa apprendere la capacità di andare dentro alle cose. «Dimentichiamoci le scemenze: il lavoro sul personaggio di Stanislavskji, le numerose prove, il grande lavoro sulla sceneggiatura. Sta tutto nel momento del ciak. L'attimo è fondamentale».