Tahar Ben Jelloun e Luciana Castellina hanno inaugurato la serie dei #confronti delle Giornate. Il conflitto israelo-palestinese, l’orrore di una guerra che non pare finire mai e la speranza che inizi, anche attraverso la presa di posizione del mondo della cultura, una fase che non preveda più l’uso delle armi

«Ci sono persone che hanno il dovere di non stare in silenzio rispetto a quello che sta accadendo in questo momento. In particolare, il mondo della cultura deve intervenire e farsi parte attiva». Con questa esortazione, Giorgio Gosetti ha dato inizio al primo dei dodici #confronti delle Giornate degli Autori. Un esordio riferito alle tremende guerre che sconvolgono l’umanità di questo pianeta, ma non al punto tale da costringerla a creare un forte movimento per la pace. Si possono mettere in discussione le strategie che l’Occidente sta attuando? È ancora possibile un dissenso che abbia delle conseguenze positive?

Il confronto La cultura per la pace aveva come protagonisti, Tahar Ben Jelloun (al Lido anche come presidente della giuria del concorso Bookciak, Azione!) e Luciana Castellina. Un dialogo a partire dal recente saggio dello scrittore marocchino, L’urlo edito da La nave di Teseo. «Ho iniziato a scrivere questo libro – ha spiegato Ben Jelloun – subito dopo gli eventi drammatici del 7 ottobre come uomo scioccato di fronte all’attacco tremendo di Hamas. È stato qualcosa di terribile e sapevo che ci sarebbe stata una replica israeliana mille volte più forte. Qualche giorno dopo è iniziato il bombardamento alla popolazione palestinese. Allora ho capito che avrei dovuto scrivere qualcosa di diverso, per dire che le barbarie del primo atto sono state seguite da barbarie ancor più gravi, perché causate non da una organizzazione terrorista ma da un esercito nazionale. Non esiste un equilibrio tra le due azioni».

«Ringrazio le Giornate degli Autori – ha detto Castellina – per aver deciso di aprire con un confronto su quello che sta accadendo a Gaza. La cosa più grave è l’inconsapevolezza dei rischi che stiamo correndo. Ci siamo molto spaventati all’inizio. Poi, giorno per giorno, ci siamo assuefatti all’orrore. È molto importante, allora, richiamare l’attenzione anche da luoghi come un festival cinematografico».

Cosa fare? E in che modo ottenere un radicale cambio di direzione che dalla cieca violenza della guerra porti alla risoluzione di un conflitto e a un nuovo modo di coesistere? Nel corso dell’incontro, sia Ben Jelloun sia Castellina hanno posto molte volte quesiti del genere. E se dalle parole dello scrittore traspariva un pessimismo realista, per la politica che ha combattuto mille battaglie per i diritti umani, non era prevista una resa incondizionata.

«Dobbiamo trasformare la guerra in un colloquio – ha proseguito Castellina –, perché di questo si tratta. Dobbiamo superare una fase medioevale della politica quando la “partita” si vinceva sul terreno militare. Adesso non possiamo più accettare che le questioni si risolvano con l’uso delle armi. È iniziata un’altra storia, dove è possibile fare patti con i nemici. E invece tutti continuano a fare accordi solo con gli amici. È un passaggio tanto difficile quanto necessario».

«Ho parlato con tutti, israeliani e palestinesi – ha replicato Ben Jelloun –. Sono stato anche nelle scuole degli uni e degli altri. Quando sono tornato a casa mi sono sentito senza speranza perché ho visto che era presente solo dell’odio. I bambini sono educati all’odio. Da questo punto di vista, non sembra possibile trovare una via d’uscita. La situazione al momento è esplosiva. Ci sentiamo impotenti, cittadini,  intellettuali, scrittori, cineasti. Non sappiamo più cosa fare. Le armi sono più forti di noi. Oggi per me non esiste una soluzione. Si massacreranno all’infinito, è troppo l’odio accumulato. Forse tra cent’anni, le ceneri si saranno raffreddate abbastanza da poter iniziare un dialogo».

«Io vorrei riuscire a parlare con un pezzo di Israele – ha concluso Castellina, cercando di intraprendere il sentiero stretto della speranza –. Non ci riesco più, perché la guerra cambia le persone, le rende meno tese alla riflessione. Io vorrei , però, poter trovare di nuovo un canale di comunicazione con quell’area di Israele che è stata sensibile alla questione palestinese».