I film delle Notti Veneziane presentati da Gaia Furrer e Silvia Jop

Tornano le Notti Veneziane, la finestra annuale delle Giornate degli Autori realizzata in accordo con Isola Edipo e dedicata al cinema italiano. Al centro della selezione di quest’anno c’è la volontà di mostrare la poliedricità del cinema, con uno sguardo a trecentosessanta gradi. Un linguaggio espressivo che, a seconda dei contesti, si fa spazio narrativo, strumento d’indagine della realtà, mezzo per ricostruire frammenti di vita, filo rosso per ricompattare ritratti di storie, non solo del Paese Italia. Sei documentari e tre film di finzione tratteggiano il profilo composito ed eclettico di un presente all’interno del quale sono i luoghi a fare da detonatori dei racconti.

Accade così con gli studi di produzione e progettazione della Marechiaro Film in L’occhio della gallina di Antonietta De Lillo, all’interno dei quali la regista, con l’ausilio della macchina-cinema (scenografie manifeste, proiezioni su pareti, copioni ri-attualizzati), ricostruisce la propria vicenda legale e giudiziaria nell’affaire Il resto di niente, suo ultimo film di finzione datato 2004, mettendo in luce le contraddizioni del sistema produttivo e distributivo italiano.

Vale lo stesso per la Palermo di Bosco grande di Giuseppe Schillaci, che raccoglie, coltiva e racconta la storia di Salvatore Spatola detto Sergione, uomo (troppo) grande, leggero di animo e sguardo, che incarna letteralmente il corpo del proprio quartiere e delle sue genti.

È così anche per lo studio dell’artista autodidatta Antonia Mosca alias Isabella Ducrot in Tenga duro, signorina! Isabella Ducrot Unlimited di Monica Stambrini, teatro di connessioni con gallerie internazionali di primissimo piano da Stoccolma a Oslo, passando per Londra e New York: tra le pareti di un quartier generale cosparso di colori a tempera, si racconta la biografia di una delle più interessanti artiste italiane contemporanee.

Fuori da queste stanze/studi/città, si spalanca il mondo. Troviamo la Cambogia in Vakhim di Francesca Pirani, racconto in presa diretta dell’adozione di un bambino, il figlio della regista, avvenuto vent’anni fa. Attraverso l’uso del mezzo cinematografico Pirani, tessendo la propria storia di madre, rimette al mondo, rendendoli tangibili, i primi anni di vita del bambino oggi adolescente, e della sua famiglia di origine. 

È poi la volta di A Man Fell di Giovanni C. Lorusso, ritratto intercostale delle rovine del nostro tempo raccolte tra i calcinacci degli 11 piani dell’ex-ospedale OLP ora rifugio per profughi della Striscia di Gaza nel campo libanese di Sabra, dove la vita sembra essere rimasta appesa a un filo. 

Ed è luogo poetico/politico (e politico in quanto poetico) il Portogallo in sommovimento nel 25 aprile 1974 rivisto e ristudiato da Luciana Fina in SEMPRE, dove l’atto della memoria e dell’archivio serve a interrogare il futuro, come se fossero le immagini a pretenderci davanti a loro, e non il contrario. Stanze, città e mondo nel cinema di finzione si raccontano invece attraverso tre opere profondamente diverse tra loro e rappresentative della vivacità del cinema italiano contemporaneo.

Incontriamo Quasi a casa, l’opera prima della giovane regista Carolina Pavone, con una bravissima Lou Doillon (figlia di Jane Birkin e di Jacques Doillon, nonché sorella di Charlotte Gainsbourg) nei panni di una musicista tormentata e di successo rincorsa da Caterina, un’aspirante cantante intrappolata nel senso di inadeguatezza e nelle insicurezze che tempestano la vita di ogni giovane donna. Nella tensione costante del dialogo tra le due, che si consuma tra i divani di una casa al mare e le pareti di una sala prove, ritroviamo le contraddizioni di un percorso di formazione senza età.

È poi la volta delle stanze di un reparto ospedaliero immerso nel caldo agostano di Napoli con La scommessa di Giovanni Dota. Black comedy, racconto dal tono farsesco con impianto semi-teatrale, il film è reso vibrante e divertente dalla bravura della coppia composta da Carlo Buccirosso e Lino Musella, accompagnati da Iaia Forte, che scommettono sulla vita e la morte dei ricoverati.

Accanto a questi due lavori troviamo un autore centrale nello scenario del cinema indipendente italiano ed europeo come Fabrizio Ferraro, che con Desert Suite firma una visione del presente a tratti chiara quanto onirica, nella quale pensiero e racconto si fondono in un movimento visivo profondamente articolato. Sullo sfondo c’è un’Europa da attraversare e in cui affondare tra la vendemmia nelle colline verdi della Francia del sud, un amore che nasce a Bruxelles, le pareti buie e fumose di una suite olandese, e le immagini di un’altra vita che scorre dentro ad un piccolo televisore.